Top

Di acqua e terra: Bausch, Acogny e Airaudo fra danza e memoria

sacre

Di acqua e terra: Bausch, Acogny e Airaudo fra danza e memoria

In principio era l’acqua. Due donne in abito lungo nero e in un ambiente spoglio con pochi elementi, due secchi e un bastone, si confrontano, dialogano, si scoprono. Sono Malou Airaudo, storica interprete del Wuppertaler Tanztheather di Pina Bausch e Germaine Acogny, danzatrice franco-senegalese considerata madre della danza contemporanea africana, per la prima volta insieme.
Due donne straordinarie, i corpi plasmati da anni e di vita dedicata alla danza: Airaudo è stata con Bausch dall’inizio e con ruoli di spicco, Acogny ha vinto il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia nel 2021.
L’acqua scorre nei movimenti che mimano una pagaia condivisa, nell’inconfondibile espressività delle braccia di stampo Bausch che sono un prolungamento del cuore, disegnano emozioni e che, fluide, accarezzano l’aria e l’altro corpo di un colore diverso, l’acqua è nei secchi in cui le due si interrogano sugli antenati e sul vedere insieme il passato e il presente e forse il futuro. È acqua quella che bagna di commozione gli occhi di chi guarda, fra poesia e nostalgia.
È acqua la musica, è acqua la luce, sono acqua i corpi che non nascondono i segni del tempo (sono nate nel 1948 Airaudo e nel 1944 Acogny), è acqua l’universo femminile che sembra cantare alla luna nelle spalle di una e nella schiena dell’altra, è un viaggio di armonia e sorellanza, di pace e calma, di convivialità e di universi condivisi.
Si chiama “Common Ground(s)” la prima parte della serata proposta al LAC di Lugano che sigla la prima collaborazione fra la Pina Bausch Foundation (Germania), l’École des Sables, centro internazionale per le danze africane tradizionali e contemporanee (Senegal) e Sadler’s Wells (Regno Unito).Nella seconda parte l’acqua lascia spazio alla terra, la pace al conflitto, l’armonia alla violenza. Siamo scaraventati in un incubo vivido, feroce e senza scampo.
“La sagra della primavera” è stato composto nel 1975 da Pina Bausch, prima di diventare la musa del teatrodanza che scompone e frammenta di gesti, azioni e parole il flusso della vita e della coscienza. Sulle note del Sacre du Printemps composta nel 1913 da Igor Stravinskij ci sono 38 danzatori e danzatrici da 14 paesi africani.
La musica pulsa nella terra come i piedi, vibrano le viscere, c’è qualcosa di primitivo e ancestrale. Non è più il cuore a risuonare con la scena ma stomaco, intestino e genitali. E un senso di oppressione, una gravità che risucchia verso terra.
Non ci sono cenni alla Russia pagana come nella versione di Nijinsky, non alla fertilità e all’unione dei sessi come nel rito di Béjart, non c’è l’Eletta rassegnata di Martha Graham. Qui l’Eletta è disperata, tremante, ribelle, furiosa. L’opera nasce in pieno femminismo e Bausch, eco-femminista ante-litteram, mostra i conflitti fra uomo e donna, le tensioni, la violenza. Una donna sarà sacrificata, è quella che avrà il vestito rosso e teme di essere la prescelta. Col suo sacrificio non tornerà la primavera. Non sarà mai più primavera.
I corpi neri trasportano la visione in altre dinamiche di potere, violenza e sopraffazione. Sudano i torsi nudi dei maschi, gocciolano nella terra mischiandosi alle zolle, impossibile non vedere tracce del passato coloniale. Le donne vestono abitini leggeri color carne (già quale color carne?) che si macchiano di sudore e terra, diventando via via più materici, pesanti, ancorandole a una terra che invischia senza possibilità di fuga.
I gesti sono potentissimi, le mani unite, scendono fra le gambe in un gesto veloce e rimbalzano al petto ed è come se quel colpo fosse per noi: cosa abbiamo inflitto, derubato, depredato noi, occidentali all’Africa? E ora questo è un risarcimento tardivo? Un tentativo di riparazione? Chissà se Bausch ci ha mai pensato? Di sicuro le dinamiche della sopraffazione le interessavano e l’umanità ripercorre sempre le stesse dinamiche prepotenti, predatorie, consumistiche. Che si tratti di coppie, stati o governi.
I corpi si muovono in cerchio, il rito diventa frenetico, ossessivo, orgiastico. Impossibile in quei passi, a tratti lenti, non vedere le file di schiavi ammassati all’isola di Gorée, di fronte a Dakar da dove erano costretti a partire per il Brasile, l’America.
Un cerchio di dolore fino al sacrificio parossistico dell’Eletta, ruolo spesso interpretato da Airaudo. Un altro cerchio si chiude: Acogny ha diretto Mudra Afrique, la scuola di danza fondata da Béjart e dal Presidente-poeta del Senegal Léopold Sédar Sénghor a Dakar, modello per tutto il continente.
Il sacrificio è vicino, sembra quasi di sentire l’odore del sangue. Il respiro è salito in gola, c’è nostalgia per quell’acqua pacificante dell’inizio. Forse è lì che si sono aperti i pori e il cuore e la pelle, ed è per questo che per il “Sacre” siamo più nudi e nude a ricevere e fa male. Bellezza che fa male.