Top

La zona d’interesse e la nausea tachicardica del male

zonadinteresse

La zona d’interesse e la nausea tachicardica del male

Non si fa: non si inizia una recensione con “io” ma mi viene così. Ho visto “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer che ha vinto l’Oscar, in uno strano stato psico-fisico. Al mattino avevo fatto una gara di canottaggio fra fango e pioggia prendendo un gel energetico con caffeina e guaranà che non tollero benissimo e che mi ha fatto venire un infausto mix di nausea e tachicardia. Quindi il corpo era intorpidito e stanco ma cuore e mente erano su di giri e infastiditi.

In questo stato disunito e disagevole ho visto il film. E lo ringrazio, credo sia stato perfetto per quel che dovevo vedere e sentire. I corpi bianchicci, quasi abbaglianti che fanno il pic-nic al fiume, i colori pastellosi, pittorici, le treccine perfette delle bambine, la natura sublime e sovrana, l’impeto del fiume, l’armonia avvolgente della natura e poi la casa con le sue simmetrie perfette, violente come in un film di Kubrick. Un muro separa dall’orrore, di qui fiori e piscinetta con lo scivolo, la festa di compleanno con la barca in regalo, di là filo spinato, forni crematori, fumo, spari, urla.

Ero Rudolf Höss, il gerarca a capo di Auschwitz, responsabile della più terribile macchina di morte mai concepita, sua moglie, i suoi figli. Ero il non voler vedere. Ero il narcisismo infantile e becero che fa provare una pelliccia appartenuta a qualche ebrea con un rossetto in tasca e solo un pezzetto di fodera di ricucire. Ero le sottovesti da distribuire alle cameriere (una sola ciascuna). Ero lui che si commuove perché deve lasciare il cavallo e accarezza i cani e allo stesso tempo progetta una macchina di morte infernale con i forni che lavorano a ciclo continuo, un capolavoro di efficienza macabra. Ero i bambini che giocavano coi denti. Ero l’osso che il fiume restituisce. Ero la ragazza che nascondeva le mele e lo zucchero nel pezzo di strada dove passavano i prigionieri. Ero la madre che non regge la puzza dei forni e si chiede dove è finita quell’ebrea da cui lei lavorava a servizio. Ero l’indicibile, il dolore, l’annientamento delle persone oltre il muro, i numeri tatuati, la vittima, le vittime. Ero il cane nero che scodinzola per casa. Ero il comunicato di Höss che punisce chi rovina i fiori. Ero la strega, ero Hansel e Gretel, ero il conato di vomito che non produce nulla di Höss sulle scale, ero la freddezza, il cinismo, l’indicibile, l’irrappresentabile.

Orrore e banalità del male.

Tutto quello che sappiamo non si vede ma si sente. Non vediamo i treni ma è come se li sentissimo tutti. La musica stride e graffia, le urla, i cani, tutto è lì sotto fino a esplodere nei titoli di coda in un trionfo mortifero. Urticano quelle lunghe campiture di colore: rosso, grigio e poi nero. Danno male i suoni, il non sapere. Tutto è asettico, chirurgico come quel bianco che avvolge la sala della visita di Höss. E io ho continuato a essere di qui e di lì, anche nei sogni notturni. La nausea non è passata.