Top

Regio 50: i segreti del dietro le quinte del teatro

lampadarioRegio

Regio 50: i segreti del dietro le quinte del teatro

Per i 50 anni del Teatro Regio di Torino ho scritto questo su La Stampa:

https://www.lastampa.it/torino/2023/04/10/news/torino_i_50_anni_del_regio_i_segreti_del_teatro_nel_nostro_viaggio_dietro_le_quinte-12746030/?fbclid=IwAR2L6eZZMOPphcu2EI9M7K0-JcRw1WFgOhdwjlE0csfI1AiRttNA5FJs3_c

 

C’è un momento magico a teatro: quello in cui le luci piano piano si spengono e lo spettacolo sta per iniziare. È il tempo sospeso del non più e del non ancora, in cui tutto è possibile mentre gli occhi si adeguano alla nuova luminosità e il cuore si accorda con i battiti di chi è in sala e di chi è sul o dietro il palco o nella fossa dell’orchestra. La vita vera è lì ma non è più l’unico pensiero e quella più intensa e appassionante della musica, del canto e della scena non è ancora cominciata.
Al teatro Regio di Torino che compie 50 anni il 10 aprile quel momento è ancora più emozionante. Sono 3662 gli steli di luce del lampadario sul soffitto bianco e viola che danzano con i velluti rossi nella grande sala “a metà fra un uovo e un’ostrica aperta” come voleva l’architetto Carlo Mollino. Rosso e viola, colore insolito ma capace di aiutare la concentrazione e la ritualità.
Ma cosa succede dietro le quinte? Come funziona la macchina che permette di godere di quella magia che si vorrebbe non finisse mai? Quali sono i segreti del teatro Regio, uno dei più grandi d’Europa?

Il tetto, la vista e la macchina teatrale
L’architetto Antonio Stallone è direttore allestimenti e ci guida sul tetto da dove si vede bene palazzo Alfieri, l’ex teatro che bruciò nel 1936. Il Regio Teatro originale era stato inaugurato nel 1740. Era stato commissionato da Vittorio Amedeo II a Filippo Juvarra e poi da Carlo Emanuele III a Benedetto Alfieri, zio di Vittorio. Un teatro di prestigio, con 2500 posti fra platea e 5 ordini di palchetti.
In quel che resta di Palazzo Alfieri oggi ci sono gli uffici, il foyer del toro e la sala caminetto. Dal tetto si vede bene il paraboloide iperbolico, cupola della sala, “la nostra nuvola” dice Stallone, la torre scenica. La vista è impressionante: i tetti di Torino, la Mole, la collina, i palazzi. Altezze diverse, soffitte, abbaini, un mondo irregolare e organico che sembra quasi fare da contrappunto alla regolarità di vie di impianto romano. Quasi una città invisibile di Calvino.
“Ma dalla torre scenica si vedrà ancora meglio” ci assicura Stallone. Visitiamo i ballatoi, per fortuna non soffriamo di vertigini. Da qui si comandano tutte le barre di movimento: “Sono 32 motorizzate – spiega Stallone – più 28 manuali, di tradizione, nelle ultime due estati abbiamo lavorato per aumentare la portata di ciascuna da 500 a 800 kg, qui possiamo far salire e cambiare scenografie, tessuti, fondali e quinte. Alcuni spettacoli le usano tutte e, accoppiandole, possono sollevare fino a 1600 kg e fare sparire intere pareti”.
La squadra di soffitta è composta da 6 persone, il responsabile è Carlo Garbolino. Solo loro possono manovrare le barre in un sistema dove tutto è programmato. C’è la tenda tagliafuoco che si usa in allestimento e nei cambi palco e in caso di incendio non fa propagare le fiamme dalla sala al palco e viceversa e la lama d’acqua che si aziona in automatico in caso di incendio.
“Abbiamo un dorsale e 2 laterali – prosegue l’architetto – che ci permettono di ricoverare fino a 4 allestimenti contemporaneamente, un palcoscenico che dà grandi possibilità. Abbiamo migliorato le prestazioni che hanno portato il Regio ad avere una macchina scenica adatta a spettacoli ideati nel 2023. Oggi sono aumentate portate e dimensioni degli allestimenti: non si lavora solo con legno, carta, polistirolo, tela ma con ferro e alluminio per ospitare le produzioni dei grandi teatri europei”.
Lo spazio è enorme, si vedono ancora le colonne dell’allestimento di Aida e bauli di Powder her face.
Saliamo ancora e andiamo proprio sotto la graticcia. Siamo a 27,5 metri sul palco e sopra di noi vediamo questa rete su cui solo la squadra di soffitta può camminare. Fa impressione, lì sospesa a 28 metri dal suolo.
“La graticcia in ferro è il luogo – spiega Stallone – a cui appendiamo gli allestimenti: soffitti, tele, fondali. La graticcia di tradizione era in legno e si lavorava con chiodi, rocchetti e corde di canapa, oggi con funi d’acciaio, catene e corde statiche di nylon. Chi sale qui (i 6 di soffitta) può posizionare corde e motori per legare elementi per cambi scena e montaggi“. Prima di salire si depositano in armadietti gli oggetti che possono cadere: un cellulare o una biro o anche solo una moneta da qui possono fare grandi danni.
Usciamo e andiamo sul belvedere che gira intorno alla torre scenica, spazio per le manutenzioni e vista a 360° sulla città. Lo spettacolo è fantastico: la Mole sembra a un passo. Sembra di vedere un funambolo tendere una corda e camminare fino a lì.
“Quando vediamo un cielo o un soffitto sul palco, che sono tele verticali, possiamo immaginare che ci sono altri 15 metri sopra quelle tele che servono per fare movimenti delle scenografie nei cambi di scena” dice Stallone.
Da qui si vede il percorso che faceva il re che senza uscire dai suoi possedimenti: da Palazzo Reale, passava dove ora c’è l’Armeria, la Biblioteca Reale, gli abbaini dove ora c’è la questura e arrivava direttamente al suo palco.
“Siamo a 4 piani sul livello strada – dice –, ma il teatro ha anche 4 piani sotto dove abbiamo il magazzino, i quadri elettrici, la gestione dell’aria e del riscaldamento”. Una macchina perfetta che restituisce magia è mossa dalla passione e dalla competenza di tante persone. “In tutto – spiega Stallone – sono i 56 tecnici in direzione allestimenti: macchinisti, elettricisti, attrezzisti, fonici, sarte. Aida ci ha obbligato ad avere tutti in turno più aggiunte di personale”.
È ora di scendere nella pancia del teatro.

La sartoria
Dopo un labirinto di ascensori, corridoi, frecce che indicano percorsi, arriviamo a 6,8 metri, sotto il livello stradale, un secondo piano sotterraneo. Ad accoglierci c’è la responsabile di sartoria Laura Viglione.
“Il nostro è un reparto tranquillo – racconta Viglione – siamo distaccate da altri settori ma c’è un montacarichi che ci porta sul palco. Siamo io, la vice Patrizia Bongiovanni e 7 sarte”.
Intorno a noi abiti appesi con i nomi, al centro tavoli con metri, squadre, rocchetti di filo, macchine per cucire.
“Siamo in un momento calmo – spiega – perché abbiamo appena finito le prove costume con il coro e gli artisti del Flauto magico. Abbiamo i costumi, le calzature della Figlia del reggimento, più il Flauto per le scuole e lo spettacolo per il Piccolo Regio L’arca di Noè, tutto in contemporanea”.
Qui non si fanno allestimenti completamente nuovi, ci vorrebbe il doppio del personale, ma si adattano quelli che arrivano.
Funziona così: “Per La figlia del reggimento La Fenice ci manda i costumi per artisti, coro e comparse, noi convochiamo il nostro coro e il cast e adattiamo gli abiti esistenti alla fisicità delle nuove persone. Lo stesso succede con Il flauto magico che arriva da Berlino. Destino vuole che quando abbiamo persone grandi ci sono i vestiti piccoli e viceversa e così montiamo e smontiamo aumentando o riducendo di 2-3 taglie. Tutto è tagliato e pensato per facilitare l’operazione di allargare e stringere”. Ci mostra il costume di Pamina e i pantaloncini dei genietti.
“Il momento più difficile – racconta – è quella che noi chiamiamo la prova “antepiano” in palcoscenico senza orchestra ma con i tecnici: dopo aver provato tutti gli elementi a pezzi qui è tutto insieme. È un momento infernale perché mentre prima funziona tutto, gli artisti stanno fermi davanti allo specchio e i costumi calzano alla perfezione, sul palco c’è sempre qualcosa che non va: camminando la calzatura fa male, il pantalone dà fastidio, la giacca stringe, la parrucca tira”.
Ogni sarta è assegnata a un reparto e nei momenti in cui ci sono cambi di costume da fare in velocità ci sono fino a 30 persone che assistono.
“Io sto in centro sala – spiega Viglione – ad annotare tutto quello che non va con il costumista, le sarte preparano tutte le sedie con i nomi e poi aiutano. Dopo l’antepiano abbiamo 2 prove generali e lì il mio lavoro è finito”. Dopo lo spettacolo ci sono lavaggio e stiraggio. C’è una lavanderia semindustriale interna, mentre per i capi importanti e delicati ci rivolgiamo a una lavanderia esterna.
Continua: “Questo è un reparto in cui ne capitano di tutti i colori. Quando pensi di aver finito magari all’ultimo cambia un cantante. Per fortuna abbiamo un direttore artistico che rispetta il nostro lavoro e, se possibile, cerca un sostituto con fisicità simile. Alle volte a mezzanotte arriva una mail con le nuove misure. L’artista avvisato all’ultimo, si presenta appena può, ma non è mai all’alba”.
A Laura Viglione brillano gli occhi nel raccontare, fa questo lavoro da tanti anni e l’esperienza che si accumula non ha oscurato la scintilla originaria, anzi: “La differenza fra noi e altri reparti è che, ad esempio la scenografia fa cose grandiose ma non lotta con nessuno mentre noi ci confrontiamo continuamente con persone che hanno esigenze specifiche: chi si vede grassa, chi vuole i capelli lunghi, il nostro è anche un po’ un lavoro da psicologi. Devo dire che oggi è molto più facile: i giovani sono molto più preparati anche sulla storia del costume e non protestano se devono mettersi in calzamaglia. Quando ho iniziato c’erano gli ultimi divi: Bruson, Pavarotti, Freni. Forse io ero giovane e mi intimidivano. Adesso quel mondo è finito. I giovani hanno l’età dei miei figli e io ho esperienza, forse sono io a intimorire loro: sono tutti semplici, garbati, educati”.
Lasciamo Viglione e la sua squadra lavorare e ci spostiamo verso l’archivio.

L’archivio
Ad accompagnarci nella memoria del teatro è Simone Solinas, responsabile archivio storico ed editoria. Un sistema di pareti scorrevoli che si manovrano con una manopola ci porta a viaggiare nel tempo unendo il futuro al passato.
“Stiamo digitalizzando – racconta Solinas – anche grazie a Italgas che è socia della Fondazione, l’archivio fotografico che testimonia i 50 anni del teatro. Ci sono diapositive e negativi: 250 mila immagini che saranno salvate dal deperimento. Oltre a questo ci sono le registrazioni audiovideo con 2000 nastri e oltre 6000 manifesti e locandine”.
Una foto incorniciata mostra i protagonisti dell’inaugurazione il 10 aprile 1973: “I vespri siciliani” di Giuseppe Verdi. Ecco Rajna Kaibaivanska, Aligi Sassu che ha curato le scene e Maria Callas e Giuseppe Di Stefano, la regia.
Solinas ci mostra un bozzetto di Bernardino Galliari per il sipario, perché nel Settecento era dipinto. Il teatro, vanto della corte sabauda, fu devastato da un incendio nel 1936. Per farci assaggiare l’atmosfera dell’epoca Solinas ci porta ai 2 modiglioni dell’antico teatro, visibili al pubblico in una teca. Eccoci finalmente fra i velluti rossi e le scale irregolari. Prendiamo l’ascensore che ha una forma insolita, che attira l’attenzione, Mollino ha pensato a tutto. Sullo specchio è stato anche disegnato uno spazio per i selfie: tutto si adegua al presente.
“I modiglioni – spiega Solinas – sono sculture di legno dorato che decoravano i divisori dei palchi. Questi in particolare vennero tolti a inizio ‘900 per i lavori di ristrutturazione che portarono a tre ordini di galleria e ad aumentare la capienza della sala da 2.500 a 3.000 posti. Così si sono salvati dall’incendio e fanno assaporare l’estetica e il gusto del teatro settecentesco”.
Ci spostiamo verso la Sala del Caminetto percorrendo gli spazi meravigliosi in cui nulla è lasciato al caso. Solinas ci invita a prestare attenzione alla forma del bar “la moquette – spiega – riveste anche la base e, nella visuale, fa galleggiare nella visuale il banco di marmo, che sembra sospeso, oltre a far impazzire i tappezzieri”. Ed eccoci nella Sala Caminetto, che scaldava il palco reale, testimonianza sopravvissuta all’incendio.
A fianco c’è il Foyer del Toro.

L’orchestra
Qui incontriamo Stefano Vagnarelli, primo violino dell’orchestra del teatro Regio dal 1986, quando aveva 22 anni.
“Oggi – racconta – siamo 86 elementi. Quando sono entrato eravamo quasi 100. Tante cose sono cambiate in questi anni: una volta si faceva una settimana di prova, una di assieme e poi le recite, adesso è tutto molto più veloce e il ricambio generazionale ci ha permesso di crescere molto in qualità. Ora riusciamo a fare 2 prove, 3 o 4 assieme e poi in scena soprattutto quando abbiamo 2 opere in contemporanea come adesso con l’Arca di Noè e Il flauto magico”.
“Il mio ruolo – spiega Vagnarelli – è capire immediatamente cosa fa il direttore e comunicarlo a livello gestuale a tutta l’orchestra: tutti hanno la vista sul mio arco e sulla mia mano destra e vedono bene attacchi, tempi, cambi di arcate. La prima cosa che faccio, oltre a dare la mano al direttore, è accordare l’orchestra: mi alzo, tutti stanno zitti, prendo il la dall’oboe che lo dà a fiati e ottoni e lo do a tutti gli archi partendo dai bassi: contrabbassi, violoncelli, viole e violini”.
Il teatro è la sua casa, il suo mondo, la sua vita: “una seconda casa, anzi spesso una prima. Venivo spesso a studiare qui quando avevo i figli piccoli per trovare tranquillità. Ho visto passare molti direttori: bravi, medio-bravi e grandissimi, quelli che magari arrivavano non proprio lucidi e poi dirigevano in modo incredibile”.
Aneddoti e ricordi si mescolano nella memoria: “Ricordo una volta un Barbiere con il maestro Campanella in cui ne succedevano di tutti i colori. A un certo punto è stata tolta una scala dalla scena e messa in orchestra, ci veniva da ridere e a volte è difficile trattenere le risate, che si sentirebbero in sala. E quella volta che Pinchas Steinberg si arrabbiò, era furioso”.
Il teatro è soprattutto emozione, per chi assiste e per chi fa, qualcosa di unico che si crea nella sospensione dell’incredulità e nell’abbraccio dell’arte.
Racconta: “Prima di vincere il concorso qui, ho lavorato 3 anni nell’orchestra Rai. Bello essere un violinista sinfonico ma il teatro mi completa dal punto di vista personale. Per me è un’emozione continua, da 40 anni”.
È ora di andare dietro le quinte a capire come funziona la scena dal basso.

Direzione di scena
Ad accoglierci sono Riccardo Fracchia e Carlo Negro, direttori di scena.
“Nel Flauto magico – spiega Fracchia – su queste pareti ci saranno delle proiezioni video coi personaggi che si muovono in situazione quasi bidimensionale. I cantanti appaiono da alcune finestre e sono su una mensola nel vuoto tenuti da imbragature di sicurezza e i gesti devono essere perfettamente sincronizzati”.
Qual è il ruolo della direzione di scena? Fracchia non ha dubbi: “Garantire le migliori condizioni per provare e andare in scena a cantanti, artisti, coro, figuranti, corpo di ballo. E poi ci sono tante componenti che non si vedono da tenere insieme: macchinisti che montano e movimentano; attrezzisti che creano e custodiscono spade, bicchieri, elementi di arredamento dando vita alla recitazione; poi ci sono elettricisti che preparano, montano e intervengono nei cambi di scena e dalla cabina per dare gli effetti di luce; sarte perché ci sono molti cambi d’abito; i fonici garantiscono l’ascolto di orchestra e cantanti e del maestro; tecnici che si occupano dell’orchestra perché i musicisti spesso suonano non solo in buca ma anche sul palco”. Ad esempio per l’ultima Aida c’erano sempre musicisti e artisti in scena e quindi spostamenti di formazioni sui carri, coi tempi precisi per ogni ingresso. “Noi dobbiamo conoscere le esigenze di tutti, testimoniamo la complessità delle competenze in un ruolo vivo, attuale, dinamico”.
Carlo Negro dal gabbiotto con i monitor che controllano tutto simula un’andata in scena fra 5 minuti avvisando gli artisti: è convincente. Il teatro prima dello spettacolo è già spettacolo.
Il viaggio continua con la vista sulla sala splendida e luccicante mentre si accendono gli steli. Siamo in proscenio, sotto di noi la fossa dell’orchestra. “Un grande orgoglio del Regio – spiega Fracchia, indicandola – è la buca del suggeritore: qui stava, perché ora non si usa più, un musicista pronto a dare tutti gli attacchi delle parole e della musica”.
Niente è lasciato al caso. Da qui c’è un piccolo canale a fine palco per raccogliere gli eventuali oggetti che possono cadere, prima che arrivino all’orchestra. Una macchina perfetta. Tutto è calcolato. Anche gli applausi. “Si provano anche quelli– conclude Fracchia – perché bisogna calcolare i tempi di ingresso e coordinare 120 persone come nel secondo atto di Aida”.
Dalla tecnica alla magia. Andiamo ora a scoprire dove nascono gli oggetti.

Attrezzeria
Nel retroplaco c’è un gigante montascene, l’ascensore più grande, soprattutto in altezza, mai visto. Dall’altra parte c’è via Verdi, da cui entrano gli allestimenti con ingombri enormi.
È ora di andare a curiosare nel laboratorio dove nascono gli oggetti di scena. Ci guida Andrea Rugolo, responsabile attrezzeria.
Nella stanza ci sono scaffali e scatole, viti, chiodi, fili. Due grandi teste di cavallo di cartapesta con gli occhioni cerchiati di rosso scuro come la criniera poggiano alla base della scala di ferro che porta su, nell’antro delle meraviglie.
“Quelle teste – racconta Rugolo – sono state disegnate da Emanuele Luzzati per Gargantua all’inizio degli Anni Ottanta”. Saliamo la scala, il pavimento di ferro scricchiola e sembra di essere in una favola: candelabri, sciabole, stoviglie, ceste. “Qui – prosegue Rugolo – costruiamo gli oggetti che entrano in scena. Siamo quelli che vedono lo spettacolo nascere, seguiamo tutte le prove e lo accompagnamo fino all’ultima recita. Questo è un laboratorio con attrezzature che ci permettono di realizzare e riparare cosa può rompersi e, naturalmente, cerchiamo cosa serve anche fuori dal teatro. Non dimentichiamo che gli oggetti sono fondamentali per abituare i cantanti ad avere cose in mano. Così sanno dove tenere le braccia”.
Dalle scatole spuntano finti salumi, formaggi, polli, tacchini enormi, ceste di frutta, tuberi, fiori, forme di pane, bastoni, manichini, bambolotti, piante, sedie. “Alcuni oggetti – dice Rugolo mostrando una testa di asino con frange dorate al collo – li realizziamo recuperando materiali dalla calzoleria come il cuoio e dalla sartoria, poi noi ci mettiamo passione e professionalità”. Oltre a pazienza, saper fare manuale e fantasia, tanta fantasia. Gli oggetti sono archiviati qui e nel magazzino di Settimo Torinese. Scorgiamo una gabbia di bambù e corda, è quella di Papageno nel Flauto Magico. Prima di scendere e andare all’ultima tappa del viaggio Rugolo ci mostra la macchina che produce il rumore di rottura di piatti. È una sorta di scivolo metallico su cui si fanno cadere cocci di ceramica. Il rumore è fortissimo. Siamo certi che anche dall’ultima fila, oltre ad avere un’ottima vista, si godrà pienamente anche di questo rumore.

Direzione tecnica
L’ultima tappa di questo viaggio che fa venire voglia di vedere al più presto un’opera è dietro le quinte con Dario Acquadro, direttore tecnico.
“Dopo tutto quello che avete visto – dice quasi scusandosi – questa è la parte meno artistica e più tecnica. Negli anni sono cambiate molte cose: oggi c’è molta più velocità e più complessità. Negli Anni Settanta era difficile manovrare ponti mobili e carri con persone a bordo, ora è tutto più facile. La nostra priorità è sempre la sicurezza. Dopo lo Statuto abbiamo impiegato 10 anni per adeguarci alle nuove norme e tutto cambia continuamente per cui dobbiamo continuare a lavorare per essere sempre a norma”. E anche questa è arte, l’arte di fare in modo che tutti e tutte possano lavorare in sicurezza. D’altra parte la parola “tecnica” viene dal greco “tekne” che significa proprio arte.