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Diventare pioggia e acqua per lasciar andare la sofferenza

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Diventare pioggia e acqua per lasciar andare la sofferenza

Qualche giorno fa un’amica con un genitore malato mi ha detto: “Devo accettare”. Qualcosa mi suonava strano nella sua frase. Come se dovere e accettare fossero agli opposti. Allora ho indagato. Per me funziona così: se “devo” metto uno sforzo muscolare, sono attiva, tesa. Combatto invece di lasciar andare. Se accetto sono rilassata, morbida, accogliente. Non passiva ma acquosa.

L’acronimo RAIN

“La pioggia cade uniforme su tutte le cose” recita un detto zen. Jack Kornfield, insegnante di mindfulness nel suo meraviglioso libro “Il cuore saggio”, spiega l’acronimo RAIN, appunto “pioggia”, come 4 principi di trasformazione consapevole. Sono: riconoscimento, accettazione, investigazione e non identificazione.
Spesso quando ci chiedono “Cosa c’è?” rispondiamo “Niente”. Riconoscere che c’è qualcosa che non va è il primo passo sulla via della consapevolezza. Negare di essere stressati o insoddisfatti o arrabbiati non rende liberi.
Il secondo passo è l‘accettazione. Ci permette di aprirci ai fatti. Il solo riconoscimento non basta perché genera avversione o senso di protesta infuriata o desiderio che le cose siano diverse. Accettare non è passività, non vuol dire che non si possa lavorare per migliorare le cose ma che, per il momento, stanno proprio così. Vivere è abbracciare i problemi. Con accettazione e rispetto anche quelli che sembravano insolubili diventano gestibili. Kornfield fa l’esempio dell’uomo che dava al suo dobermann l’olio di fegato di pesce perché aveva letto che faceva bene. Prendeva a forza la testa del cane e la metteva fra le ginocchia. Un giorno il cane si liberò versando l’olio sul pavimento e andò a leccarlo spontaneamente.
Il terzo principio è l’investigazione della natura dell’esperienza. Il corpo, le sensazioni, la mente e i fenomeni sono i fondamenti dell’indagine. Contratture, rigidità, tensioni. In che zona del corpo le avvertiamo? nel corpo posso riconoscere e lasciar andare. Poi le emozioni: c’è rabbia, paura, tristezza, senso di perdita? Poi scopriamo i pensieri, i giudizi, le storie, le convinzioni. Poi vediamo se tutto questo cambia nel tempo, se è sotto il nostro controllo o se arriva e va.
Infine notiamo che l’identificazione con “io”, “mio”, “me” è fonte di sofferenza, dipendenza, ansia. Se lasciamo fluire l’esperienza senza identificarci con lei siamo liberi di lasciare andare e rimanere nella consapevolezza. Non siamo i nostri pensieri, le nostre sensazioni e le nostre emozioni.
Meditare è un allenamento in questo percorso di riconoscimento e disidentificazione. Ci insegna a stare con l’esperienza istante per istante, senza farci travolgere da ciò che capita. Non ci anestetizza, non ci rende aridi o non compassionevoli, anzi. Non evita il dolore, che capita ed è nella natura degli esseri senzienti, ma la sofferenza, ovvero quello che facciamo del dolore, diventa una scelta. Di libertà.