“Io, via dalla guerra in Siria, sempre a metà e mai a casa” Mitkhal Alzghair
Su Torinosette, 25 maggio 2018
intervista a Mitkhal Alzghair, siriano, rifugiato, ballerinoe coreografo a Interplay con “Displacement”
Il cuore e le radici in un Paese da cui si è costretti a scappare. Lo sguardo e le mani in un altro che accoglie ma resta estraneo. In mezzo la storia di un identità sospesa fra non più e non ancora, un corpo in ricerca che diventa testimone di tutti gli spostamenti e le migrazioni del mondo. E poi gli occhi grandi, fissi, spaventati e coraggiosi, un appello diretto che interpella e chiede risposte.
Formato all’Higher Institute of Dramatic Art di Damasco, Mithkal Alzghair, 38 anni, coreografo di “Displacement”, ha completato la sua formazione al Centro Nazionale di Coreografia di Montpellier dopo essere fuggito dalla Siria per evitare la guerra.
Quando è andato via dalla Siria?
«Nel 2010, un anno prima della rivoluzione sono venuto a studiare a Montpelleir e poi sono stato obbligato a rimanere qui perché sono rifugiato. Se tornassi ora dovrei completare il servizio militare e quindi andare in guerra. La mia famiglia è rimasta là».
Perché ha scelto la Francia?
«Avevo contatti con alcuni artisti francesi. Prima ho studiato al Centre National de la Danse di Pantin, nella banlieue di Parigi. Poi sono stato accettato al Centre Chorégraphique National di Montpellier. Un’esperienza meravigliosa».
Comincia a sentirsi un po’ europeo?
«Ho passato 30 anni in Siria e 8 in Francia. Ogni tanto mi sento integrato, penso e sogno in francese, ma spesso ci sono cose che mi fanno sempre sentire straniero, come frontiere e controlli. Ho molta nostalgia di casa. Sono quasi a metà, inbetween. E magari fra 20 anni mi sentirò nella metà esatta! Richiede tempo… ».
“Displacement” parla anche di questo?
«È l’incontro fra la mia storia personale e la storia di tutte le persone che sono costrette a scappare dalla guerra e devono emigrare per cercare sicurezza, pace e un posto dove stare. I conflitti e le migrazioni sono una realtà universale, creano un incontro umano che è lo stesso che vorrei costruire con gli spettatori».
Quanto conta l’identità?
«Ogni rifugiato deve fare i conti con questo tema. Mi interessa il confronto fra la cultura che si è forzati a lasciare e che continua a essere incorporata nella persona e quella del paese adottivo che il rifugiato deve prima di tutto cercare di capire.
Fra culture e tradizioni diverse ci sono molte differenze ma è sorprendente quante siano le somiglianze. Ad esempio in palcoscenico utilizzo la “Dabke”, la danza tradizionale siriana che si pratica anche in Iraq, Palestina, Libano e Giordania, e con variazioni pure in Turchia, Grecia e persino in Francia: gli uomini eseguono gli stessi passi il fila, tenendosi per la vita».
Qual è il tema di fondo del suo lavoro?
«Mi interessano le grandi questioni da condividere con il pubblico. Parto da una storia personale per poi incontrare una comunità e abbracciare una tematica universale che incrocia tutti i rifugiati sparsi nel mondo. Chi scappa cerca nuovi territori di pace ma spesso trova frontiere, ostacoli, razzismo. I corpi in scena manifestano tutto questo».
Balla da solo e in trio, con gli altri due danzatori.
«Sì. Shamil Taskin, che viene dal nord della Turchia e con cui ho studiato a Montpellier; e Rami Farah, siriano, conosciuto a Damasco, che ha vissuto vicende d’esilio simili alla mia.
Mi sono chiesto – avendo sperimentato uno spostamento forzato – cosa fa il corpo quando il movimento non è volontario, se sta immobile, se è ricollocato e deve costruire una nuova identità. Decostruire e ricomporre: mi interessa l’eredità del corpo, la sua memoria, la sua reazione all’autorità; ma anche la forza delle radici della danza folk, l’urgenza di muoversi e la paura di non poter tornare indietro: non più nel vecchio posto e non ancora nel nuovo, un perenne peregrinare… Poi c’è il gruppo, il bisogno di appartenenza. Il trio si muove contro le imposizioni ideologiche, ed entra in gioco la danza contemporanea nella ricerca di come liberarsi dall’autoritarismo, dai dogmi che limitano i corpi».
Ancora una fuga?
«In realtà anche qui non è mai chiaro se i tre uomini sono persone in fuga o soldati in marcia. Ad esempio il gesto di alzare le mani può evocare protesta come a una manifestazione, ma può anche essere una richiesta di aiuto, una resa per evitare la violenza».
Come si sviluppa la coreografia?
«È una scrittura sperimentale che si basa sulle ripetizioni, sulla ricerca della continuità e dell’evoluzione incarnando la memoria della guerra, le tradizioni siriane e cercando un collegamento fra questi aspetti. Passi, gesti e movimenti cercano una relazione fra l’eredità del passato e una scrittura compositiva libera. Ad esempio posizioni di dominazione si trasformano e si deformano giocando con tempo, spazio e ritmo. L’identità diventa scoperta, presenza, relazione; sempre con l’idea di non affezionarsi a niente, demolire tutto per poi ricostruire».
E il corpo, in queste trasformazioni?
«Cerco di trovare l’identità del corpo sotto la dittatura ma anche l’identità del corpo “militare” e mi interessano le trasformazioni, l’apertura a più significati. Lavoro sulla forma e su come trasformarla in modo flessibile passando dal corpo militare al corpo delle vittime nel mutare dei movimenti e dei gesti. I gesti dei dittatori si trasformano in quelli dei perseguitati e viceversa, in una pluralità di significati cangianti e multiformi».
C’è molto silenzio, nello spettacolo, a parte il rumore dei passi.
«Il suono dei piedi ha una sua forza e permette di sentire come anche l’energia e lo spazio cambino dal marciare con gli anfibi all’essere a piedi nudi. L’assenza di musica mi sembra molto più vicina alla realtà e permette di concentrarsi sul suono dei corpi e dei movimenti. Il silenzio apre uno spazio più umano e più vero».
Ritmo e spazio dunque nella sua ricerca?
«Io lavoro sul ritmo ma anche su come è possibile esplorarlo e liberarsene per andare oltre le differenze fra culture ed eredità storiche. Mi piace diventare un corpo concreto legato alle problematiche universali dell’umanità. Il lavoro è molto fisico, il corpo ha urgenza di muoversi e cercare nuovi territori in cui fuggire. Si parte con la marcia che crea un ritmo che si lega a un altro ritmo e ne comincia un altro ancora e non può smettere, e dall’incontro si sviluppa qualcosa . Lo spazio sono i territori conosciuti da chi è costretto a emigrare, luoghi fisici e non solo, prima di spostarsi per creare nuove identità nella nuova cultura. Queste eredità costituiscono un’energia che dà continuità a chi danza e a chi crea con le immagini. È qui che i passi di danza tradizionale incontrano la ricerca contemporanea per ricreare e ricostruire sul ritmo, insieme allo spazio».
I suoi progetti per il futuro?
«Ho appena cominciato a lavorare su una nuova idea in continuità con “Displacement”. Una riflessione sui sistemi di controllo, l’immigrazione e l’integrazione. Credo che continuerò a esplorare il tema del trio maschile. Ma sono solo all’inizio. Sarà pronto fra un anno».