Lo zen e l’arte di contare le vasche in piscina
Ho sempre amato nuotare. Mi piace sentire il mio peso alleggerirsi in vasca e i pensieri diventare liquidi e rarefatti. Mi piace lo scorrere del movimento dopo la bracciata o la gambata, la fluidità, la resistenza dell’elemento che si ammorbidisce, le carezze o gli schiaffi dell’acqua su mani e piedi, le gocce sulla schiena.
Il passato
Fin da bambina non mi ha mai fatto paura l’acqua. Si narra che gattonassi verso il mare senza problemi. Mi ricordo che in piscina alle elementari molti bambini e bambine temevano i tuffi o piangevano. Io no: come tanti, acceleravo quando l’istruttore mi puntava e mollavo quando guardava altrove. E mandavo via ogni paura ai tuffi in modo da essere presa come modello. Mi è sempre piaciuto quell’io-io-io, che a 7 anni è ammesso. E poi ero felicissima, alla fine, di trovare la mamma o il nonno con la merendina. Che fame avevo dopo e che ho adesso dopo nuoto.
Al liceo, ogni 2 settimane, andavamo in piscina perché non c’erano abbastanza palestre per tutti. Ero nella corsia di quelli che facevano 4 vasche stile, 4 dorso, 4 rana e così via fino ad arrivare a 40: un chilometro.
La piscina mi ha accompagnato anche nei diversi posti dove ho abitato: un modo per sentirsi a casa perché l’acqua è sempre lei anche in Germania durante l’Erasmus, a Bra, a Urbino, in Brasile, in viaggio. Solo in India non sono andata.
Ho sempre fatto fatica a contare le vasche ma lo schema del 4 è rimasto: 4 stile, 4 dorso, 4 rana. E così a volte facendo una vasca mi sono ritrovata a pensare: è un numero dispari perché sto tornando ma è la prima delle rane o la terza, dunque a che punto sono, ah si prima ho fatto l’andata con la tavoletta poi l’ho posata… e così facendo mi perdevo il respiro e la quiete e il numero.
Il presente
Da quando medito provo ad abbinare il respiro al numero. Il respiro è sempre disponibile, è sempre nuovo e non è mai quello di prima o di dopo. Come tutto ciò che avviene nel corpo è pura presenza, esperienza e non pensiero, quindi mi basta ripetermi “uno” per tutta la vasca a ogni espiro, soffiandolo nell’acqua e poi “due” tornando e così via. E poi basterebbe ricordarsi di cambiare stile ogni 4.
Ma neppure contare così è facile, la mente è impaziente anche in acqua e vuole già andare oltre, oltre la vasca, oltre la doccia, oltre il dorso, oltre a stendere il costume e l’accappatoio e guardare il telefono o bere un tè o andare a un appuntamento. E così l’acqua mi dà modo di osservare la mente scimmia, anzi la mente pesce, e di riportarla qui, in mezzo a tutte le altre distrazioni (faccio la virata? supero il signore lento? cambio corsia? perché questa mi sta così vicino? etc) che alla fine mi fanno capire come anche l’idea di contare che sembrava così semplice annega facilmente, sciacquata via da un calcetto o una manata o un neon o uno spruzzo. Tutto è così fluido e fragile e impermanente e acquoso. Chissà quante vasche ho fatto alla fine. E sarà poi importante?