Plastica, lattine e ricerca della felicità. Viaggio a Dharavi, slum “a 5 stelle”
Da La Stampa, esteri, 2 febbraio 2014
http://www.lastampa.it/2014/02/02/esteri/plastica-lattine-e-la-ricerca-della-felicit-viaggio-a-dharavi-lo-slum-a-stelle-338xbexZzUwVR7uHXHdLaI/pagina.html
L’appuntamento è davanti alla stazione di Mahim, in pieno centro a Mumbai, o meglio a 13 km dalla punta Sud e a 13 dalla punta Nord. Sulla brochure di Reality Tours and Travel, l’associazione fondata da Chris Way, un inglese che ha vissuto in Brasile la realtà delle favelas, c’è scritto: “Consigliate le scarpe chiuse”.
Basta guardare in basso, seguire i piedi vestiti e non le infradito e si capisce di essere nel posto giusto. Alzando lo sguardo la conferma: sono tutti turisti non-indiani. Qualche minuto prima dell’appuntamento arrivano le guide. Indossano camicie azzurre e sono tutti ragazzi che vivono nello slum di Dharavi.
La mia guida si chiama Jitesh: sguardo vivace, battuta pronta e sorriso autentico. Il gruppo è formato da due olandesi, un serbo e una coppia canadese.
“Prima di cominciare – esordisce Jitesh – vi dico due parole su Dharavi: qui abitano un milione di persone ma non è il più grande slum dell’Asia perché ce n’è uno più grande a Karachi, in Pakistan.
Slum significa ’casa costruita su terreno del governo’ ma le case appartengono a proprietari che affittano. Complessivamente a Mumbai la popolazione che vive in slum è il 55%: su 20 milioni di persone, circa 12 milioni abitano qui e in altre 2000 aree simili, ma noi non usiamo questa parola che è molto occidentale ed è diventata famosa dopo il film Slumdog millionaire. Noi semplicemente chiamiamo il posto col suo nome, quindi io vivo a Dharavi”. Via le macchine fotografiche, le persone qui non amano essere filmate.
“Un ultima cosa – dice Jitesh – questo tour vi farà cambiare idea sugli slum: non è dove vivono poveri, banditi, mendicanti. A Dharavi non manca nulla, è centrale, comodo ai treni (ci sono 6 stazioni vicine), c’è tutto. È uno slum a cinque stelle. Vedrete”. Ci avviamo. Per la strada vivono i veri poveri: quelli che dormono, mangiano, cucinano, confezionano ceste e lavano pentole direttamente fra i marciapiedi e l’asfalto.
Il giro parte da Shakir Compound, un’area molto commerciale: carretti, negozi, il cinema con i film di Bollywood in hindi, banche, scuole, farmacia, c’è tutto.
Il percorso comincia con il riciclo della plastica. Spiega Jitesh: “I lavoratori vengono soprattutto dai villaggi, guadagnano 120-150 rupie al giorno (1,5-2 euro) per 10-12 ore di lavoro. Al mese significa 3000 rupie e un affitto ne costa 2000, quindi le persone non se lo possono permettere e dormono qui. Stanno qui 10 mesi all’anno e poi per altri due vanno a casa, nei villaggi. Anche perché qui non possono portare la famiglia”.
In una stanza piccola piccola, ci sono una decina di persone accovacciate a terra intente a smistare la plastica che arriva qui da tutta Mumbai e forse da tutta l’India “e anche dalla Cina, nessuno la ama” aggiunge Jitesh.
La plastica viene raccolta, smistata per tipologie, schiacciata e resa compatta da una macchina. Mentre Jitesh racconta, da una pressa escono striscioline bianche, sottili come tagliatelle. “Vedete? Questa è una plastica molto pulita”. Poi viene lavata, asciugata e trasformata in pallets di vari colori che finiscono nelle fabbriche indiane per diventare sedie, giocattoli, oggetti vari. Visitiamo la fabbrica che produce le macchine per lavorare la plastica. “Non toccate niente – ci raccomanda Jitesh: o è rovente o tagliente”. Entriamo in una fucina infernale: metallo, fuochi, caldo, aria irrespirabile, una ventina di persone stipate a lavorare.
Usciamo, sono stata dentro 20 secondi e mi sento morire, non posso pensare a 10 ore qui. La reazione all’aria aperta è molto più di un respiro di sollievo: un misto di commozione e tristezza. La ragazza canadese scoppia a piangere. Jitesh le chiede cosa c’è: “L’aria? La polvere?”. Lei lo tranquillizza: “Niente”. Io lo so cosa c’è ma non saprei definirlo se non con la stessa reazione.
Saliamo sul terrazzo di una casa e vediamo lo stoccaggio della plastica sui tetti, se così possiamo chiamarli: giganteschi grappoli di taniche, bacinelle, sedie, oggetti vari divisi per colore, molto più alti delle case.
Dopo la plastica è la volta del riciclo dell’alluminio. L’odore è insopportabile e l’aria pesantissima. Qui finiscono le lattine, che vengono sminuzzate, lavorate e trasformate in blocchi. L’aria è ancora più insostenibile, la gente lavora senza alzare la testa. Un olandese chiede: “Perché non usano maschere?”. Jitesh risponde: “Non le vogliono. Fa caldo e sono scomode. Anche se dici loro che viene il cancro ai polmoni, ti rispondono che non possono pensare al cancro di domani ma a cosa mangiare oggi”.
Ma ci sono garanzie per i lavoratori? “Se ti tagli una mano ti curano ma non ti fanno più lavorare. Basta guardare fuori e ci sono tante altre persone pronte a prendere il tuo posto”.
Passiamo dove si riciclano le latte di vernici: si rimettono in forma, si lavano, si bruciano all’interno e si rimandano alle fabbriche. Il fumo è biancastro e l’odore tossico. I residui liquidi finiscono nelle acque. Forse vanno al depuratore. Jitesh non è convinto. Forse finiscono direttamente nell’oceano: “Ecco perché nessuno fa il bagno in spiaggia a Mumbai”.
Attraversiamo una parte dello slum, dall’area musulmana a quella hindu. “La convivenza fra religioni è pacifica qui” racconta Jitesh poi ci raccomanda di fare attenzione alla testa. Le stradine sono strettissime e basse, io ci passo a malapena, gli olandesi fanno fatica. Percorriamo una specie di labirinto fra vie strettissime e buie. Ogni tanto arrivano spiragli di luce e buoni profumi di cucina. Ovunque nelle case mamme con bambini sorridenti mentre preparano il pranzo, insaponano i figli, impastano papad.
Qua e là capre, gatti, uno anche morto, galline.
Le case sono di 8, 9, massimo 10 metri quadri, un monolocale dove la sera si mettono giù i materassi e si vive in 4 o 5 persone: genitori e figli. I maschi fanno la doccia fuori, le femmine dentro, in una piccola area dedicata. Acqua corrente e luce sono disponibili 24 ore su 24. “Questo è uno slum a cinque stelle, ve l’avevo detto”. Sorride Jitesh. Chissà gli altri.
Fuori i ragazzini sono pronti per la scuola: in divisa, lavati e profumati, le ragazze con le trecce ripiegate su se stesse e i fiocchetti rossi. A scuola vanno più dell’80% dei bambini. Ci sono tre tipi di education: quella privata dove si insegna in inglese, la lingua necessaria per accedere all’Università, con una retta molto alta; la scuola statale che insegna in hindi ed è gratis e le scuole delle ONG che insegnano in inglese e sono gratuite.
Facciamo una sosta davanti ai bagni: una casetta stile campeggio. Di fronte però c’è una gigantesca latrina a cielo aperto: un cumulo gigantesco di rifiuti di ogni forma e colore. I bambini la stanno usando proprio in questo momento armati di un piccolo secchiello di acqua. Siamo un po’ provati dalla vista e dall’odore. Jitesh è a suo perfetto agio: “Si possono prendere dissenteria e colera, ma noi abbiamo un sistema immunitario molto forte, io sono cresciuto qui e vivo qui, ho sempre fatto due docce al giorno, una al mattino e una la sera e non mi è mai successo nulla. In più la mia paghetta è sempre stata di una rupia al giorno, quindi non ho mai potuto mangiare cibo di strada ma sempre e solo le cose buonissime che fa mia mamma”.
Jitesh è fiero di abitare a Dharavi: “Qui abbiamo un fortissimo senso della comunità: vicino a casa mia si sono sposati due ragazzi e le famiglie non avevano i soldi per il matrimonio così abbiamo fatto una colletta e li aiutiamo col cibo. E non passa un giorno in cui non sappiamo chi nasce e chi muore”.
Intanto i bambini giocano a biglie. Sono sorridenti e ci salutano. La nostra guida ne approfitta per sottolineare l’importanza delle relazioni: “I bambini si intrattengono fra di loro, non stanno parcheggiati davanti alla play-station o all’iPad. Sono fortunati”.
Jitesh ci regala una vera lezione di filosofia: “Dharavi ti insegna a essere felice con quello che hai. Sappiamo che potremmo avere di più ma non abbiamo aspettative e stiamo bene”. Lo dice in un modo così autentico e basato sulla sua esperienza di vita che quando lo ripete citando Shakespeare: “Piangevo perché non avevo le scarpe, poi mi voltai e vidi un uomo senza piedi” mi sento come quando la vita travolge l’arte. Ormai il pugno nello stomaco è arrivato. E quando dice: “Noi sappiamo che valore hanno le cose” siamo ormai tutti oltre le parole. Non riusciamo neanche a guardarci negli occhi.
Il giro continua con la conceria delle pelli con altri profumi molesti e tossici e la fabbrica dei vasi in terracotta. Qui il forno è alimentato da stracci di cotone, che costano meno del legno e bruciano molto più lentamente.
Intanto Jitesh risponde a domande su ogni argomento, dai matrimoni combinati ai funerali. Ed è un piacere sentirlo parlare. Ha solo vent’anni ma è saggio, adulto e sereno, come chi ha fatto tesoro della sua esperienza.
Le sue parole sono pacate e ironiche. Inutili i paragoni con i coetanei occidentali: “La maggior parte dei matrimoni è combinata. Fin da piccoli ci chiedono di non accettare caramelle e di non dare confidenza agli sconosciuti e poi ci chiedono di passare la vita con una sconosciuta”. Poi ci mostra un ragazzo, anche lui guida a Dharavi: “Lui si è appena sposato con una ragazza contro il volere della famiglia, perché i padri erano amici e poi hanno litigato. Se li beccano li cacciano di casa”. Il ragazzo si gira. Sembra un divo di Bollywood, con capelli nerissimi lunghi e sorriso malizioso: “Vi prego non dite ai miei genitori il mio segreto. Voglio provare a convincerli lentamente”.
Per finire il viaggio, ormai sono passate due ore e mezza, arriviamo al quartier generale di Reality Tours and Travels. Si occupa di vari progetti: empowerment (letteralmente mettere in condizione di agire) dei ragazzi, corsi di nutrizione per mamme incinte (la malnutrizione dei bambini è altissima, il 43%), classi di musica, danza, fotografia, cricket per i maschi (90 allievi professionisti) e calcio per le ragazze.
Fra i partner ci sono ONG che si occupano di disabili, donne e tratta e barefoot acupunturists, la Ong che cura con gli aghi i più poveri fra i poveri. L’80% del ricavato del nostro tour (700 rupie a testa) va alle ONG, il resto in tasse e per i nuovi progetti di Reality. Si possono anche comprare foto fatte dai ragazzi e magliette “I love Dharavi”. Compro una foto bellissima con due bambini a testa in giù e una maglietta. Spero mi aiutino a non usare più la parola “slum” ma a ricordarmi quante cose ho imparato in una mattinata a Dharavi.