“Algoritmi idioti e politici lazzaroni”, Graffi di Silvio Saffirio
Ai tempi dell’agenzia pubblicitaria che aveva fondato con Pietro Gagliardi e Pasquale Barbella, la BGS, oltre 450 collaboratori, c’erano persone che facevano di tutto pur di non trovarsi da sole in ascensore con lui: Silvio Saffirio. Avevano paura di ricevere i suoi graffi: battute feroci e affilate, l’affetto c’era ma era nascosto.
Si chiama “Graffi ai tempi che corrono. Post ai posteri di uno scettico della modernità”, edito da Yume, il suo nuovo libro. La prefazione è di Marco Zatterin.
Una raccolta di post, pensieri, poesie, digressioni con il piacere di dissentire e demolire i luoghi comuni.
“Sono graffi – spiega Saffirio -: fanno male ma non sono gravi come i tagli. Il male è iniziato col dare alle leggi nomi cretini come “Porcellum””. Ecco il primo.
Quasi 200 pagine di buon senso, spirito langhetto e visione del mondo con divertissement.
“Ho chiamato la collana anti/tesi: le tesi sono una gabbia. Se non ti vanno ti taglio la testa come quegli stronzi della Rivoluzione francese”.
Nessuna concessione al politicamente corretto, un grande amore per la dialettica e il non essere d’accordo.
“Il mio è un pensiero minoritario – racconta l’autore – che sembra conservatore e reazionario, in realtà è solo civile. È lo stesso di Ermanno Olmi o Carlin Petrini: il rispetto per la terra. Può essere un libro effimero o da comodino: da leggere quando si è alla ricerca di risposte”.
Da “L’algoritmo ciula” sui sistemi che ripropongono per 10 anni lo stesso albergo solo perché un’estate sei andato a Rodi a “Donne che non hanno neanche un uomo” che invita a chiedersi perché. Dalle riflessioni sull’Islam “povera Fallaci, l’hanno messa in croce” all’”Elogio dell’aceto” come sapore in estinzione. Dalla definizione di “Fafiuché” a “L’eclissi dei maestri”: Tanti ricordi: “Era il 1985, c’era una siccità terribile e siamo usciti su La Stampa a pagina intera con una bella foto e il titolo “Bentornata pioggia” al primo acquazzone. Senza vendere nulla. I centralini sono stati inondati di complimenti”.
Ce n’è per tutti: i politici sono “lazzaroni sbracati”, i genitori non sanno dire no: “Educare – precisa l’autore – è anche violare, è accompagnare ma con qualche spintone e nelle famiglie disarmoniche non c’è più la gerarchia di non contraddirsi davanti ai figli”.
È il terzo libro dopo il saggio “Gli anni ruggenti della pubblicità”, Instar libri e la raccolta di poesie, “Galaverna”, sempre per Yume.
“Sono un po’ come Kubrick – dice scherzando – un western, un film storico, mai lo stesso genere”.
Saffirio è nato a Bosia, in Alta Langa e conserva l’amore per la terra e la cura: “Sono appassionato del mondo e della lingua langhetta. I ragazzi allora parlavano piemontese e imparavano l’italiano come fosse l’inglese. Mi ha reso facile passare le lunghe estati e capire la gente che amavo e amo. Come dire che se uno ragionasse in greco sarebbe vicino ai filosofi. Il pensiero langhetto è che le cose non sono mai come sembrano: meglio diradare le nebbie prima di prendere decisioni”.
Un po’ filosofo, un po’ fustigatore di costumi ma con fruste leggere. Confessa: “Ambirei ad essere uno stoico moderno ma mi piacciono troppo le crapule”.
Ha attraversato tante professioni: “Il mestiere che mi è rimasto – dichiara – è il copywriter: trovare la parola giusta. Mi arrabbiavo spesso con i copy perché avevano poca cultura o erano dispersivi. A volte strappavo il foglio guardando la persona dalla fessura nella carta: era un modo di ferire ma anche di far crescere”. Non era piacevole ma insegnava a ri-scrivere ed essere umili. Parola che deriva da humus: terra. Tutto torna.
Lunedì 14 maggio, alle 14,30, “Spazio autori”
Salone Internazionale del Libro
Su La Stampa di lunedì 14 maggio