Con la danza odissi raccontano le statue ballando al museo
Su La Stampa 17 ottobre 2010
Che cosa hanno in comune le statue e la danza? Le prime si possono ammirare nel loro esserci una volta per sempre. La danza invece esiste solo nel suo farsi, ogni volta unica e diversa. E ha bisogno di un artista dal vivo per poter essere. Ma quando si tratta di danza classica indiana il legame fra scultura e movimento è molto forte ed evidente perché sono state proprio le statue a permettere di ricostruire i movimenti delle danze.
Oggi alle 18 al Mao, il Museo D’Arte Orientale, Lingaraj Pradhan e Sanjukta Dutta Pradhan raccontano, in un evento che va verso il tutto esaurito, attraverso la danza odissi, tre sculture fra cui Genesh, il dio dalla testa di elefante, danzante, nell’ambito del festival «Darbar India in danza».
La danza odissi
La danza odissi, uno dei sette stili classici dell’India, originaria dell’Orissa, è una delle più antiche, risale a 2.200 anni fa ed era danzata nei templi dalle «maharis», danzatrici sacre, poi è diventata patrimonio dei «gotipua», giovani danzatori maschi fuori dal tempio. Apprezzata fino al XVII secolo, ha subito un lento declino fino agli Anni 40. Dopo l’indipendenza dell’India nel 1947 è cominciato il revival. Di tutti gli stili, l’odissi si distingue per i movimenti rotondi, fluide a spirale.
Lingaraj Pradhan e Sanjukta Dutta sono due giovani talentuosi danzatori, marito e moglie. Ieri, nella prima performance a Torino, hanno incantato il pubblico della Lavanderia a vapore con cinque danze meravigliose, piene di spiritualità, bellezza ed emozioni. «Oggi insieme – spiega Lingaraj – compiamo un viaggio di parole e danza nelle posizioni base dell’odissi: il tribhangi, la posizione femminile e il chouka, quella maschile». Nel tribhangi, la tripla flessione, il peso è su un piede solo e il fianco sporge, obbligando il corpo a ricomporre il suo asse con una curva del torso, fondamentale per dare l’idea di movimento anche alle statue, mentre il chouka è una posizione molto stabile e quadrata come la figura di Lord Jagannath, la divinità scura con gli occhi grandissimi.
Una grande sfida
La differenza fra l’esibirsi in India e in Europa è rilevante. «In India – racconta Lingaraj – tutti conoscono le storie e le tecniche, è una sfida, non si possono fare errori. In Europa è tutto diverso: lingua, costumi, gesti. ma anche se le persone hanno una cultura diversa, sentono la profonda spiritualità e, dopo le performance, sono commosse. La spiritualità della danza è un valore universale. Alcuni piangono di emozione».
Di emozioni Lingaraj e Sanjukta ne regalano tante, trasfigurandosi nelle divinità di cui raccontano le vicende. Il soprannome di Lingaraj è «Chotu bai», fratellino, ma sul palco diventa un gigante. Colpisce l’espressività del suo viso capace di passare dall’amore alla rabbia cogliendo tutte le sfumature dall’«abhinaya», l’antica arte dell’espressione. Sanjukta è elegante, tecnicamente ineccepibile e molto espressiva. Viene spontaneo chiedersi come sia la loto vita insieme. «Lei è un’ottima danzatrice, insegnante, moglie», risponde lui. «Lingaraj è la mia forza, la mia energia, senza di lui non posso fare nulla. E poi ci capiamo e rispettiamo le rispettive carriere», dice lei.