Turning of bones di Akram Khan in anteprima a Orsolina 28 a Moncalvo
I colori del tramonto accendono i verdi delle colline e gli azzurri del cielo sul meraviglioso palco all’aperto di Orsolina 28 Art Foundation a Moncalvo nel Monferrato.
Sono gli stessi colori serici e cangianti dei bellissimi costumi dei 16 performer che stanno per mostrarci una prova aperta qualche giorno prima del debutto a Stoccarda al Colours International Dance Festival il 26 giugno.
Khan è un coreografo inglese di origini bengalesi nato a Londra nel 1974 molto amato (da vedere la puntata su di lui nella serie “Move” su Netflix), viene dal kathak, danza classica indiana praticata nel Nord in origine nelle corti, che richiede una disciplina e una precisione encomiabili. I costumi ricordano proprio quelli del kathak con un kurta che si stringe in vita e arriva alle ginocchia amplificando i giri e sotto dei pantaloni aderenti ma morbidi. Gli occhi sono neri per tutti, con una potente pennellate da shodo giapponese.
Il lavoro diretto da Akram Khan con la compagnia di Eric Gauthier in residenza nel centro diretto da Simony Monteiro si chiama “Turning of bones”, girare le ossa. Allude al Famadihana, rituale praticato in Madagascar, in cui i morti vengono esumati e avvolti in teli di seta per onorarli e danzare con loro. Danzare con le proprie radici ancestrali. gli antenati sì ma anche i propri demoni per fare pace con l’idea della fine e annullare l’idea di tempo.
Passato e futuro si sciolgono nel presente nelle danze classiche indiane e nell’arte in generale che abita un tempo stra-ordinario, fuori dall’ordinario: il rito del teatro dove tutto scorre e insieme è sospeso.
Un uomo e una donna indossano costumi neri. Lui è portato come un cadavere, accudito e vegliato. Ha un viso disegnato sulla testa. Lei è una sorta di ombra che lo segue (spirito?). E poi c’è una grande pietra grigia, materia ora incandescente, ora vibrante, ora solenne che danzatori e danzatrici si passano di mano in mano con cautela, curoae rispetto. Tutto è sacro.
Sulla musica di Aditya Prakash i performer si muovono come corpo unico dalle tanta braccia (Shiva e Kali?) e poi come un unico organismo sinuoso che si snoda nello spazio santificando la terra e attingendo da lei forza, poi agiscono a coppie sempre nella sacralità del rito, nell’ascolto reciproco e nella dedizione. Il passato avvolge e trasforma i corpi in passi a due, sulla stessa diagonale, alla ricerca della pietra.
La danza prosegue verso un crescendo emozionante e potente. La terra pulsa sotto i salti dei piedi nudi, il cielo cambia ancora colore. Khan sente l’esigenza di rivoltare i suoi ultimi spettacoli, le ossa della sua arte, perché il mondo cambia sempre e “la danza è l’antidoto a questi tempi bui” dice.
Di certo mentre il mondo sembra implodere l’arte e la bellezza sono la parte giusta da cui stare. Venissero a vederlo Trump, Putin, Netanyahu e Khamenei.
Gauthier ci dice: “Nei prossimi giorni lavoreremo con le luci che saranno cupe e fumose”. Sono grata di aver visto lo spettacolo con il colore avvolgente del tramonto che cambia ad ogni istante. E di sentire pace e gratitudine nelle ossa: le mie e quelle di chi era con me sui gradoni di Orsolina anche se non c’è più.
ph Andrea Guermani




