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Lo zen e l’arte di meditare in volo: mindfulness e viaggi

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Lo zen e l’arte di meditare in volo: mindfulness e viaggi

Se dovessi scegliere un elemento naturale in cui sentirmi a mio agio opterei per la terra e l’acqua, non certo l’aria. Credo che siamo in molti a non sentirci a casa fra aerei, finger e aeroporti. Sarà l’aria condizionatissima, sarà la sensazione di claustrofobia, sarà il fatto che stare sospesi è qualcosa di non esperibile: se salto, riatterro subito e sento anche tutta la pesantezza della gravità. Insomma amo viaggiare ma non amo volare. Poi si sa, è sicuro, si viaggia appesi a un vortice, mi spiegò tanti anni fa un fidanzato ingegnere aerospaziale. Tutto vero, ma io fra rumori strani, orecchie tappate, occhi rinsecchiti dall’aria, gambe in bocca perché non so dove metterle e intimità coatta non sono una grande appassionata di voli lunghi. O almeno non lo ero. Fino a qualche giorno fa.

“Seduta sei seduta, aspettare devi aspettare, medita”

Ho appena affrontato due voli lunghi per andare a tornare dal Giappone. Obiettivo del soggiorno: la cucina dei monaci e il “mindful eating” per la tesi di master in mindfulness. Invece di passare le 10 ore dell’andata e le 11 del ritorno sorvolando la Siberia a pensare “quanto manca?” ho cercato di sonnecchiare e di fare una cosa nuova: meditare. Come dice Dario Doshin Girolami, monaco zen e insegnante del mio master alla Sapienza, tutte le volte che siamo in coda o fermi in auto o in fila dal medico o in attesa di un bus, possiamo meditare. Tanto “seduti siamo seduti, aspettare dobbiamo aspettare, tanto vale meditare”.

La consapevolezza prende il volo

Così mi sono concentrata sul respiro, l’ho ascoltato diventare calmo e costante con quel senso di torpore da quota, ho portato l’attenzione al corpo, agli appoggi, e poi ai suoni (quantiii) e ai pensieri. Le interruzioni erano continue e anche queste diventavano oggetto di meditazione: il cibo, il tè verde, l’acqua, le bacchette con cui mangiare, la conversazione con la vicina, i due passi per sgranchirsi, il freddo (a me una coperta non basta mai), il sonno, l’avversione alla posizione scomoda, etc… Tutto è diventato esserci, stare, non momento di passaggio, ma regalo di presenza. E anche il tempo è volato.