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Dimitris Papaioannou racconta “The Great Tamer”

The great tamer

Dimitris Papaioannou racconta “The Great Tamer”

Su La Stampa, martedì 18 settembre

 

Il tempo come grande domatore di illusioni secondo la tradizione omerica in uno spettacolo visionario, onirico, imperdibile che ingloba il presente nel passato in una spirale che abbraccia il mito di Persefone, costretta a vivere al buio e uscire solo in primavera, l’astronauta di “2001: Odissea nello spazio”, la pittura di Mantegna e di Rembrandt passando per Raffaello e Jannis Kounellis.

Giovedì, venerdì e sabato ( 20.45 ) alle Fonderie Limone di Moncalieri per Torinodanza va in scena l’atteso «The Great Tamer» di Dimitris Papaioannou.

Ateniese, del 1964, in origine pittore e disegnatore di fumetti, ha creato le cerimonie delle Olimpiadi di Atene del 2004 ed ha diretto l’ultimo pezzo del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch. Dal 20 al 30 settembre, le OGR ospitano la video installazione «Inside» che dura 6 ore ma da cui si può entrare e uscire come si vuole.

Come nasce «The Great Tamer»?
«Ci sono due risposte. La prima è una collezione di pensieri sulla vita che è cresciuta maturando su come domare l’energia che abbiamo dentro per dare tutto il possibile alla vita prima di morire. La seconda è un fatto tragico successo ad Atene nel 2014: il suicidio di uno studente vittima di bullismo. È stato cercato per mesi con un impatto straziante nei media e nell’immaginario».
Come la società digitale cambia la percezione?
«Sono fortunato ad essere cresciuto in modo tradizionale e digitale. Sono un ibrido: colgo tutti i benefici dell’uno e dell’altro. Uso la tecnologia come un regista di cinema, presto molta attenzione all’editing e a internet e a come si inserisce nella vita di tutti noi».
Quanto conta l’identità greca?
«Noi occidentali veniamo da lì: la Grecia classica ci plasma. Soprattutto la percezione di un corpo sensuale e spirituale insieme. I greci antichi erano voyeur malati di perfezione, alla ricerca della sezione aurea e delle proporzioni: scienziati inebriati fra estasi e logica, apollineo e dionisiaco. Siamo abituati a sculture di corpi rotti e all’ossessione per la bellezza. È un ambiente omoerotico e misterioso con una luce speciale e un uso unico degli abiti a contatto con aria e acqua. Per le Olimpiadi ho esplorato l’identità greca in versione remix».
Come si incontrano arte visiva e danza?
«Altri hanno risposto meglio, ad esempio Picasso con i Balletti Russi. Sono cresciuto come pittore, era facile per me dipingere che non vuol dire essere un bravo pittore, come danzare facilmente non vuol dire essere un bravo danzatore. Dipende da cosa decidi di essere. La pittura è solitaria e mi piace per quello. La danza mi piace perché coinvolge tutto il corpo e permette di incontrare altre persone».
Come è passato al teatro?
«Ho visto “Café Müller” di Pina Bausch: ho pianto dall’inizio alla fine, un’esperienza incredibile, non ho capito nulla, uno shock completo, avevo 19 anni. Lei è diventata mia madre artistica. Mio padre è Bob Wilson. Poco per volta, senza saperlo, ho applicato i principi del vedere alla performance. Un pittore decodifica il mondo in modo diverso, come un musicista sente in modo diverso».
Come si trasforma un oggetto quotidiano in artistico?
«Basta cercare la poesia. Come insegna Kounellis e l’arte povera la poesia è ovunque, ad esempio le sedie in Cafè Muller. Cerco di evocarla con i dettagli, materiali poveri e semplici trucchi magici, illusioni create dal niente per comunicare con l’audience come fanno i bambini, come faceva Fellini. Quando vedi il trucco e ci credi lo stesso è ancora meglio».
Quanto conta la musica?
«È l’arte dell’arte, un’emozione astratta che ci attraversa e sovrasta. In “The Great Tamer” è usata distorta, in modo ironico, aiuta il flusso delle emozioni. Vince sempre lei. Vorrei essere così bravo da farne a meno in futuro ma, finora, non ci sono ancora riuscito».