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The Hateful Eight: odioso, urticante, meraviglioso Tarantino

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The Hateful Eight: odioso, urticante, meraviglioso Tarantino

Non riesco mai a esprimere un giudizio su un film subito dopo. Ma in questo caso è passata più di una settimana perché mi venisse voglia di parlare. Il film di Tarantino è meraviglioso dal punto di vista cinematografico, e su questo non ci sono dubbi, pieno di citazioni e di rimandi a film suoi e di altri, esteticamente perfetto, ma straordinariamente lento e violento. Ben scritto, ben recitato, ben tutto. Nel complesso un po’ compiaciuto, eccessivo e, forse, inutile.
Me la sono cavata così, la prima settimana, rispondendo a chi mi chiedeva com’era.

Due giorni fa, invece, è successo qualcosa che mi ha fatto vedere quello che non volevo vedere, e cioè la sua capacità di metterci di fronte a parti di noi così odiose e violente e meschine, che non vorremmo vedere.
Sono entrata in una stanza di una casetta di legno (che in piccolo ricordava la locanda del film) e invece di trovare due persone sedute a meditare, come avrebbe dovuto essere, ne ho trovate 10 impegnate a sghignazzare e fare gossip, sdraiate coi piedi (senza scarpe almeno) sul letto, un po’ abbracciati e un po’ mosci. Non le conoscevo, le ho salutate educatamente mentre salutavano per andare via, e mentre dicevo “ma no, state, non mi date nessun fastidio” con un sorriso ipocrita, pensavo: “se fossi un personaggio di Tarantino vi sterminerei tutti, perché siete sciatti, insulsi, brutti da vedere e soprattutto state ammorbando con la vostra presenza la mia stanza”.
A parte la pretestuosa nota autobiografica, ho capito cosa non mi permetteva di fare pace col film: la mia ipocrisia. Ecco perché mi urticava.

Il film comincia con un meraviglioso crocefisso di legno coperto dalla neve e una diligenza in arrivo sulle note di Morricone, sinistre e avvolgenti. Man mano che il film, come la diligenza, avanza, si capisce l’allontanamento dal crocefisso è l’ingresso in un mondo senza pietà, senza umanità, senza Dio e senza regole.
La prima ora di film è lenta e noiosa, i personaggi sono antipatici, si capisce subito che non hanno nulla di buono: sono tutti violenti, egoisti, truffatori, bugiardi, ruffiani e seduttori, cacciatori di taglie o criminali, sedicenti eroi, razzisti, sessisti. Tarantino ci fa sognare un western in cinemascope, nella neve, fra colli di pelliccia e stivali e poi ci rinchiude nella locanda di Minnie. Nel viaggio la cosa più sublime è una lettera di Lincoln al maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson) in cui lo ringrazia personalmente per aver combattuto in guerra.

La locanda. Terribile spazio claustrofobico. Teatro da camera, incubo da pareti strette e trappole in ogni indizio. Possiamo solo diffidare. Di tutti, anche delle nostre sensazioni. Tarantino dissemina indizi che poi sapientemente fa vivere solo quando serve, poco per volta, in ordine sparso: dettagli come una caramella che rotola o una macchia sulla sedia, il sapore dello stufato. Ci fa vedere che esiste un fuori, una latrina nella tormenta, ma poi ci chiude lì, al freddo, tutti contro tutti, pronti a sparare, avvelenare, offendere, denigrare, violentare con le parole, sopravvivere.

Dopo l’intervallo Tarantino esplicita i suoi meccanismi di costruzione della storia con flash-back e ritorno sui dettagli, proprio come faceva quando vendeva videocassette in una videoteca e andava avanti e indietro mille volte sullo stesso film, ricomponendolo in modo originale. Qui Le Iene torna a essere Pulp Fiction, Inglorious Bastards si tinge di Django. E di Shakespeare e di Nodo alla gola di Hitchcock (Rope, 1948) e di gialli.
Fatto questo, parte una terribile sequela di schizzi di vomiti e sangue, arti mozzati, denti rotti, colpi bassi. tradimenti di tutti contro tutti, alleanze di facciata e sopravvivenza fino all’epilogo tragico di morti su morti. Rispetto a Le iene e Pulp Fiction in cui, prima di un atto di violenza, la danza stemperava le emozioni forti, consentendoci un sospiro di sollievo prima della violenza, riuscendo anche così a esorcizzarla, qui non c’è nulla che non sia la schietta, odiosa, terribile necessità di fare pace con le parti di noi che non amiamo. Se no si scappa, o si esce dal cinema molto prima della fine.

Nella tragedia spunta un attimo di magia: la lettera di Lincoln. Finta o vera che sia non importa, serve a far sognare, serve a romanzare una realtà inaccettabile, serve a non rovinare una bella storia con la verità, serve a farci capire quanto la nostra capacità di raccontare e raccontarci sia più importante di come siamo. E questo è odioso, urticante, ignobile. Odioso come l’ottavo film di Tarantino. Non a caso “The Hateful Eight”.