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Reitz: “Il mio Heimat come l’Odissea: racconto senza fine”

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Reitz: “Il mio Heimat come l’Odissea: racconto senza fine”

Su La Stampa, 25-3-2015

Un film che è molto di più. Una saga. Un’epopea.
Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht (“L’altra patria – Cronaca di un desiderio”) è l’ultimo film del progetto Heimat, concepito e diretto da Edgar Reitz nel corso di trent’anni. Heimat 1 in 11 episodi, Heimat 2 in 13 e Heimat 3 in 4 per un totale di oltre 3000 ore di cinema (e tv) raccontano la storia di un gruppo di personaggi in un villaggio della Baviera e poi a Monaco, dal 1919 al 2000.
Ora ecco un film che racconta cosa è successo prima. Andando indietro nel tempo. Si svolge nel periodo che precede l’ondata di emigrazione dall’Hunsrück al Brasile tra il 1840 e il 1843. Racconta la storia di un ragazzo di campagna, in un villaggio dell’Hunsrück, che sogna di emigrare e di iniziare una nuova vita. È stato presentato fuori concorso alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Un pre-quel ma anche un film indipendente.
Abbiamo incontrato Edgar Reitz a Torino per il lancio del film.

Heimat 1, 2 e 3 e ora Die andere Heimat. Non solo un film, ma qualcosa di altro e di più. Si parla di epopea, di saga, di epica. Come si sente rispetto a questa definizione?
Naturalmente è solo un film. Lungo, senza fine. Il tentativo è di sviluppare un’altra forma di narrazione. Nel cinema normale il film dura 100 minuti, ha un inizio e una fine e deve trovare una storia in se stesso. Heimat no. Ha un inizio ma non una fine. Dura nel tempo.
È un modo di raccontare che esiste nella letteratura e nell’epica. Anche l’Odissea non ha fine, si racconta oralmente e non finisce.

Il rapporto fra bianco/nero e colore nei suoi film è essenziale. Cosa c’è dietro?
Anche il colore è legato alla forma di racconto lungo. Il colore funziona sempre solo legato al momento particolare. Ci sono momenti che vanno raccontati in bianco e nero, altri a colori. Non c’è uno schema ma una sensibilità che cambia continuamente. E lo spettatore riceve sempre nuovi stimoli di racconto.
Per esempio in Heimat 1 il colore era puramente emozionale: un colore rimaneva finché era viva un’emozione. Poi cambiava.
In Heimat 2 il passaggio da bianco/nero a colore era più legato a giorno e notte: il giorno era bianco e nero e la notte a colori.
In Heimat 3 il bianco e nero esprime i ricordi.
In questo nuovo film prevale il bianco e nero. Si tratta di un periodo storico, il 1840 in cui nessuno di noi viveva, un mondo di cui non abbiamo informazioni. Qualcosa era indubbiamente a colori: il tricolore tedesco, il fuoco.

Ho amato alla follia Heimat 2 ma non ho mai collegato il colore a giorno e notte ma alle emozioni.
Va bene così. Non bisogna capire in modo astratto. Il cinema è fatto di emozioni e di elementi poetici. L’idea poetica è sempre la più importante. E soprattutto non è mai vero che bianco e nero è emozionante e colore no o viceversa. Dipende dal momento.

Per rimanere sulle emozioni, qual è il ruolo della musica?
Per me è importantissima. Cinema e musica sono arti che si sviluppano nel tempo. Si sciolgono e si fondono insieme fin dall’inizio della storia del cinema. Ho sempre lavorato con il compositore in modo che la musica nasca insieme al film. Mi muovo sempre su un’idea musicale. Abbiamo cercato con cura i suoni di Die andere Heimat: ad esempio abbiamo utilizzato fisarmonica e clarinetto, sono strumenti folk. L’idea melodica è presa dalla musica di quel periodo, un tema di Robert Schumann. Anche se non si percepisce.

Intanto arriva un caffè “piccolo, espresso” pronuncia in italiano. Io opto per un tè.
La musica si sviluppa nel tempo ma il cinema è anche arte plastica e figurativa.

A me interessa la narratività, che la musica non ha. La musica non può raccontare concretamente ma solo suggerire. La letteratura invece racconta. Il cinema può raccontare come la letteratura, ma con un uso diverso del tempo. In letteratura si usa sempre il tempo passato. La storia è già finita quando la si racconta. Il cinema invece racconta il presente. Racconto quello che vedo nel momento in cui lo vedo. C’è simultaneità. Per questo il cinema unisce musica e letteratura.

Quindi la musica conta ma anche le luci.
Abbiamo lavorato mesi su test della luce e del bianco e nero. Ora, con il digitale, il bianco e nero e un’altra cosa. Nasce tutto nella post-produzione. Il problema è che in digitale non c’è colore o bianco e nero. I colori li cambi sempre come vuoi. Se non mi piace il tuo maglione rosso lo faccio blu.
Ho un monitor che mi mostra le cose a colori e vedo come da un mascherino. Con la pellicola bisognava aspettare che venisse sviluppata per vedere i giornalieri del girato. Ora col digitale, rivedi tutto il girato subito e puoi tarare i colori, esattamente come decidi il colore del monitor del computer.
Se una volta il cinema significava scrivere, girare e montare, oggi col digitale è scrivere, girare, montare e post-produrre. Si possono fare cose incredibili come fare apparire persone che non c’erano. C’è una scena con un bambino ma il bambino non c’era sul set. È stato aggiunto in post-produzione. Una magia.

Come mai ha sentito l’esigenza di raccontare il tempo andando all’indietro come se il tempo fosse circolare e non lineare? Ha detto che le storie non finiscono, ma forse cominciano.
Non ha mai la sensazione che il passato sia passato, ma è qui nel presente. Nell’immaginazione, nei desideri, nel comportamento delle persone c’è sempre il passato. La nostra biografia non comincia con la nostra nascita ma almeno 100 anni prima.

Se il presente viene da passato, come è riuscito a non potarsi dietro Clarissa e Hermann o pezzi di Heimat?
Sono partito dalla geografia: Schabbach, la casa, la strada, la collina. L’attrice che fa la madre è la stessa di Marie di Heimat 1 ma dovevo assolutamente dimenticare il suo vecchio ruolo. È un gioco col tempo.
E poi Die andere Heimat funziona da solo non è legato alla triologia. Non bisogna averla vista.

Mi viene in mente che in sanscrito ieri e domani si esprimono con la stessa parola.
Ieri e oggi sono sempre presenti ma siamo nel presente. Il concetto del sanscrito è molto filmico: per la macchina da presa è sempre ora.

C’è Qualcosa di speciale in questo film a cui è particolarmente legato?
Jakob, il protagonista. È una figura che va via rimanendo fisicamente ma partendo con lo spirito e con la mente. È il grande viaggiatore che resta mentre gli altri vanno via. Tutti i personaggi degli altri film, Herman e Clarissa soprattutto, andavano e venivano, tutto era andare e tornare. Qui la figura va via senza andare. Rimane. Non possiamo viaggiare nel tempo. Il tempo viaggia con noi, ci porta con lui.

I personaggi della trilogia, soprattutto Heimat 2 rimangono sempre con te. Li si amo o li si odia ma non li si può dimenticare. Come mai?
I caratteri sono molto vivi. Non sono mai finalizzati a un’idea ma semplicemente vivono. Non ho mai cercato di strumentalizzarli per la narrazione, ad esempio mettere un antagonista per far risaltare un carattere, non mi interessa. Sono forti perché sono indipendenti, non sono figure da cinema ma sono quello che sono. L’obiettivo è creare personaggi veri che parlano per loro senza che debba affidare loro dei messaggi. Non c’è tipizzazione. Sono vivi e veri. È semplice: io devo amare i miei personaggi. Se li odio non ci posso fare nessun film.

E ora dopo aver raccontato il prima, cosa succede?
Non ho ancora avuto problemi a trovare nuove storie. Ma ne parlo quando sono concrete. Ad esempio Heimat si potrebbe raccontare ancora in mille altri modi.

Il rapporto con la Storia con la s maiuscola. C’è un passato e a volte è scomodo.
Ogni storia è legata a un dove e un quando. Mi chiedo sempre in quale tempo e quale spazio vivono le persone. Se rispondo a questo compare automaticamente la Storia, il panorama storico, ma poi mi interessano le figure.

E come si fa a trattare la storia quando è scomoda?
Bisogna per forza tuffarsi dentro, non si può evitare in nessun modo.

Un consiglio?
Andate a vedere Die andere Heimat. È un film bello, intenso, molto emozionale.