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La musica, la mamma, le bambine e l’importanza del momento

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La musica, la mamma, le bambine e l’importanza del momento

Ieri mattina stavo seguendo la lezione di kalari, diminutivo di kalarippayattu, antica arte marziale indiana che è danza, yoga, combattimento, difesa, equilibrio, eleganza, forza, posture e reattività animali, scioltezza e molto altro, quando nella stanzetta dell’insegnante, che fa lezione da  casa sua in Polonia, si è aperta la porta ed è entrata una bimba di 5-6 anni. Succede spesso, i figli della ragazza sono tre e ogni tanto vengono a chiedere aiuto per la scuola, un elastico per capelli o anche solo un po’ di attenzioni. Di solito la mamma li manda via. Immagino che dica “finisco la lezione e arrivo” ma non ne ho idea perché il polacco non lo capisco. Il tono è fermo e assertivo. Di solito non tornano.

 

Bambine e mamme impegnate

Ieri, quando è arrivata la piccola, ho avuto un flashback: ho rivisto me a quell’età, che entravo nella stanza dei pianoforti, dove mia mamma faceva lezione di piano. Negli Anni Settanta era molto comune che le famiglie bene torinesi mandassero le figlie, un po’ meno i figli, a lezione di musica, come di danza. Me le ricordo queste ragazze, pettinate con la coda, vestite bene, con la cartella degli spartiti. Le salutavo quando arrivavano e andavano via. In mezzo c’era la lezione, una specie di tortura a cui era impossibile sottrarsi: scale, esercizi spesso uguali e ripetizioni di passaggi infiniti, almeno così sembravano. E mi pare anche di ricordare che fosse vietato andare a disturbare a meno che non ci fosse qualcosa di grave.

Il pianoforte suonava sempre, mia mamma faceva concerti in duo, quindi a volte si esercitava da sola, a volte con la sua compagna e la musica non si poteva mai scegliere. Bellissima, certo, Chopin, Schumann, Schubert, Bartok, Beethoven, Mozart, ma un conto è sentire un concerto, un conto persone che studiano e ripetono e ricominciano e sbagliano e riprovano. E le orecchie non hanno palpebre. Tutta quella musica mi è entrata dai pori, dalle narici, dai capelli ed è andata ad abitare la pancia, le ossa e il cuore.

Non ho mai suonato, sapevo a malapena leggere la musica, non ho mai saputo riconoscere autori e periodi. All’università ho dato un solo esame di storia del melodramma e letto qualche pagina della “Breve storia della musica” di Massimo Mila. Ho un apprendimento passivo della musica, viscerale, affettivo. Qualcosa che amo, come il silenzio. Qualcosa che sento ma non so.

 

Il solo momento giusto è adesso

Da quando mia mamma non c’è più, ascolto solo musica classica, la radio fissa su rai classica in studio mentre scrivo e leggo. Si è scatenata la voracità: ho il palinsesto rai fra le pagine aperte e, appena qualcosa mi piace, vado a vedere cosa è, piango di bellezza, assaggio tutto e mi innamoro e mi lascio attraversare da arcobaleni di emozioni. Mi manca mia mamma e soprattutto mi manca dirle quanto mi piace il secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff e mi manca ascoltarla uscita da concerto il giovedì sera per dirmi quanto era bravo quel violinista o quanto saltava quel direttore di orchestra o quanto era barboso quel Sostakovic.

Ci accorgiamo sempre dopo di quello che avevamo e non abbiamo più, della preziosità del tempo insieme e del fatto che pensiamo ci sia sempre un poi, un momento giusto che deve ancora arrivare. Invece l’unico momento giusto è quello che abbiamo, l’istante da vivere con tutta la consapevolezza di cui siamo capaci, allenando la presenza, assorbendo da chi amiamo tutto quello che possiamo e regalando il nostro ascolto con tutta la pazienza e la passione possibili. Si chiama presente perché è un regalo. E sta a noi apprezzarlo in ogni momento.

 

Photo by Maksym Kaharlytskyi on Unsplash