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Ho scritto un romanzo 9: “Non più, non ancora” e l’ho lasciato in stazione

tavolino

Ho scritto un romanzo 9: “Non più, non ancora” e l’ho lasciato in stazione

Adoro presentare “Non più, non ancora”. Mi piace essere al centro della scena, godermi l’agio e il disagio di chi fa le domande e di me che rispondo, l’anima performativa che risuona e che rende ogni istante diverso, prezioso, unico. La cosa che mi piace di più è rispondere alle domande delle persone perché non sono preparate prima, nascono lì per lì, spontanee, confidando nella saggezza dell’emergere. E sono meraviglia pura.

 

“Qual è stato il momento più difficile?”

Nell’ultima presentazione, a Padova, mi è stato chiesto quali sono stati i momenti di difficoltà. Ho ripensato a come è andata la stesura: avevo una scaletta che poi ribaltavo e non rispettavo. Per non andare in panico da “non ce la farò mai” ho usato la strategia dei piccoli passi. Ho scomposto il romanzo in piccoli racconti, uno per capitolo. Così potevo pensare ogni giorno “sto scrivendo un racconto”, sto facendo un passetto, non “sto scrivendo un romanzo”, sto correndo una maratona che mi avrebbe tolto il fiato. E così il panico da foglio bianco l’ho evitato. Anzi, arrivavano le storie, le piccole avventure dei personaggi che danzavano sulla pagina come pesci in un acquario. E a me non restava che osservarli e scriverne.

I momenti più difficili sono stati il prima e il dopo la stesura. Il decollo e l’atterraggio, non la navigazione. La lunga gestazione, piena di tentativi di autosabotaggio, crisi, confronti, desiderio di mollare. E poi il dopo: e adesso che fare? Mail senza risposta, attese, rifiuti, dubbi, percezione della mia invisibilità e inutilità.

 

Lacrime e stazioni

Prima di cominciare a scrivere ci sono state due crisi giganti, entrambe ambientate in stazioni ferroviarie. La prima a Milano dopo aver parlato con una editor e poi amica alla quale avevo raccontato 5 o 6 possibili trame di romanzi. Aveva fatto di tutto per dissuadermi, iniettandomi sottopelle la crisi dell’editoria, lo sconforto da troppe uscite, un sano pessimismo. Dopo averla salutata e aver fatto un giro da Feltrinelli in Centrale con “On writing” di Stephen King sottobraccio, avevo pianto e singhiozzato e vissuto momenti di pura disperazione. Sublime, vista adesso.

Secondo momento di melodramma, perché in fondo un po’ mi piace, qualche mese dopo alla stazione di Bologna. Ero lì per presentare il mio lavoro di ricerca in India, faceva freddo, avevo Chiara che voleva essere raccontata e pulsava e scalpitava, ed io ero affranta, persa nei mei turbinii mentali. E in stazione, in un caffè del piazzale ovest il mio fidanzato mi ha detto: “scrivi, non puoi stare così male, scrivi e basta” e lui sa bene cosa vuol dire. E così, pianti su pianti, lacrime e strazio.

Lo scorso fine settimana, proprio su quel tavolino del bar, ho lasciato una copia del libro, accompagnata da una lettera sul frontespizio. Chissà che fine ha fatto, chi l’ha trovato e cosa ne ha fatto. Magari sono in un cestino con le bucce di banana, magari dimenticata in uno scaffale, magari su un vagone di treno. Ma questo è un’altro romanzo.